La battaglia della comunicazione

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Un messaggio mira a produrre determinati effetti, ma può scontrarsi con situazioni locali, con diverse disposizioni psicologiche e desideri, e produrre un effetto boomerang, si chiude sempre sul ricevente ed è lì dove si decide la battaglia.

La battaglia della comunicazione non si vince nei media, si vince nella scuola. Questa certezza e il fatto che stiamo vivendo l’era della socializzazione digitale dell’informazione dovrebbe sollevare la questione se non sia necessario introdurre nei nostri curricula scolastici, in modo più rigoroso, elementi di semiotica e altri elementi correlati -benché non sembri così-, come apprezzamento dell’arte, della cultura cubana, della storia della scienza.

L’idea è supportata da ciò su cui i teorici della comunicazione stanno lavorando da decenni. Forse la persona che l’ha prospettato meglio è Umberto Eco, poiché riferendosi ai fenomeni della comunicazione di massa, avvertiva che, a prescindere dall’egemonia comunicativa di qualche potere, che è capace di annegare lo spazio sociale con i suoi messaggi, «si osservava che ciò che il messaggio diceva intenzionalmente non era necessariamente ciò che il pubblico leggeva. Gli esempi più ovvi erano che l’immagine di un recinto pieno di mucche sia “letta” in modo diverso da un macellaio europeo che da un bramino indiano, che la pubblicità di una Jaguar suscita il desiderio di un facoltoso spettatore e provoca frustrazione in un diseredato. Un messaggio, insomma, mira a produrre certi effetti, ma può scontrarsi con situazioni locali, con disposizioni psicologiche e desideri differenti, e produrre un effetto boomerang».

Il messaggio si chiude sempre a chi lo riceve ed è lì che si decide la battaglia.

Notiamo, per aggiungere agli esempi di Eco, che per una notizia sull’Ucraina, dove il giornalista cerca l’empatia del pubblico affermando che le persone a Kiev “sono persone come te e me. Ho visto borse di Dolce & Gabbana, abiti di Louis Vuitton, cioè persone che potrebbero stare perfettamente a Madrid”, ci sono due lettori, alcuni che accetteranno l’idea che la condizione dell’essere umano si cristallizza nei marchi che consumino e a seconda del luogo dove potrebbero appartenere; e coloro che, scomponendo i significati non scritti del messaggio, lo rifiuteranno per  strumentalizzare l’ essere umano nei termini del suo consumo e del suo background xenofobo, per ridurre la condizione umana a coloro che possono avere il diritto di camminare per le strade d’Europa.

Ma altri esempi più ravvicinati dovrebbero attivare le nostre allerta. Che nonostante tutta l’egemonia comunicativa contro il blocco che regna nei media del Paese, ci sia una parte della popolazione –non insignificante e forse crescente– che vi legge una giustificazione agli errori interni, parla del pericolo di non comprendere che il messaggio si chiude sempre nel ricevente. Chi fa un giro sulle reti sociali e le loro bolle su Cuba osserverà come questa idea del blocco, come mera cortina fumogena, abbia un peso importante nelle opinioni che vengono espresse.

Ma al di là di certi esempi, ancora più grave è la formazione di un consumatore di informazioni che non è stato educato a cercare al di fuori dell’informazione immediata, implicita o esplicita nei messaggi, i punti di riferimento che permettano decodificare ciò che si legge. Riferimenti persino a cui ha avuto accesso, ma che è incapace di effettuare i collegamenti necessari. Troppo spesso leggo i miei studenti dell’Università, che hanno ricevuto centinaia di ore di lezioni di storia, marxismo e di altre scienze sociali, che credono che la battaglia di Cuba contro l’imperialismo yankee e la sua strumentalizzazione attraverso il settore controrivoluzionario dell’esilio, sia un problema di “amarci tutti”, e ignorano la base storica, geopolitica e di classe dello scontro.

Il problema è che non basta insegnare, bisogna fare in modo che dall’apprendimento si creino non solo strumenti di analisi, ma anche riferimenti accessibili quando necessari.

Quella stessa mancanza è ciò che fa sì che si abbia un orecchio ricettivo, in una parte della popolazione, all’ignobile argomento che pretende sfumare la “giustizia” batistiana che assassinò uno ogni 2,3 ​​assaltanti il Moncada; che torturò a tal punto, castrando, mutilando e cavando gli occhi ai combattenti imprigionati; che perseguitò nelle strade e uccise giovani che nulla avevano a che fare con l’azione di combattimento e poi, e solo allora, portò in giudizio i sopravvissuti che non poteva assassinare, per eroici atti di decenza da parte di persone e membri onorevoli dell’esercito.

Argomento che cerca di confrontare, a favore della “giustizia” batistiana, i processi ai vandali per gli atti violenti dell’11 luglio, per i quali nessuno è stato torturato, né vi sono stati omicidi in cella, né cacce di giovani nelle strade per essere uccisi; per cui meno di uno ogni 50 partecipanti è stato condannato al carcere, e solo quelli che sono stati attori delle violenze scatenate nel mezzo di un’emergenza socio-sanitaria che ha messo il Paese in tremenda tensione per preservare la vita umana. Atti di violenza in cui sono state assaltate farmacie, poliambulatori e ospedali dove in quel momento si lottava per la vita. Atti di violenza in cui si facevano appelli a linciare la polizia, quelli che sono anche figli, vicini e parte del popolo, che in quel momento si mobilitavano per trasportare le bombole di ossigeno dove servivano, e che lavoravano instancabilmente per garantire la logistica nella straordinaria battaglia contro la pandemia.

Che il nemico (non illudiamoci, è sempre il nemico, perché siamo in guerra, anche se ci vogliono vendere il contrario) sì abbia imparato a chiudere il messaggio sul ricevente, raggiungendo da cellulare a cellulare, deve servirci per proporci cambiare, in questa materia, qualunque cosa debba essere cambiata.

In ogni menzogna che riesca a prevalere, sono ritratte le nostre incapacità. A nostro favore abbiamo che la verità, la storia e lo scopo del futuro sono il nostro principale vantaggio. Per quanto lo cerchino di nascondere, la controrivoluzione non può essere rigorosa, perché ha bisogno della menzogna. Ma abbiamo, inoltre, le scuole, gli spazi pubblici, i nostri media come strumenti essenziali per disegnare la retroguardia e lo scenario di questa battaglia.

E abbiamo il popolo, sempre il popolo, quello che è il protagonista dell’atto, e da cui provengono i suoi dirigenti.

Fonte: Granma

Traduzione: cubainformazione.it

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